mercoledì 11 giugno 2014

Cadet Records 1968



Etichetta sussidiaria sì, ma con un catalogo di serie A. Può capitare, quando la sorella maggiore si chiama Chess Records ed è semplicemente uno dei templi della musica nera americana. E' la storia della Cadet, la label a cui la casa madre, più incline al blues elettrico e al rhythm'n'blues, demandava le produzioni jazzistiche e in generale quelle che si discostavano dalla sua "linea" artistica. In realtà la Cadet, all'atto di nascita datato 1955, si chiamava Argo Records e con quel nome andò avanti un decennio, prima che i fratelli Chess ricevessero una diffida da parte di un'omonima etichetta britannica specializzata in dischi di prosa teatrale: "Guardate che il nome l'abbiamo scelto prima noi, che facciamo?" Anche se sarebbe stato difficile fare confusione tra un LP del Re Lear di Shakespeare e uno di Ramsey Lewis, i pragmatici businessmen di Chicago non abboccarono all'amo della lite giudiziaria e ne approfittarono per dare una spolverata al marchio: ecco spiegato il cambio di ragione sociale.

Stereo 8, che intende portare i suoi lettori a spasso per le vicende di piccole e grandi etichette discografiche, ha scelto di partire con la produzione Cadet datata 1968. Un anno di dischi sfornati a ripetizione (nel frattempo la specializzazione jazz si è molto diluita, e intorno all'etichetta azzurra girano vari stili)  durante il quale ci imbattiamo in grandi nomi e piccole gemme. Ramsey Lewis lo abbiamo citato poco fa a titolo di esempio. Il pianista jazz fa la parte del leone con un paio d'album tra cui l'incredibile Mother Nature's son, uscito a fine anno: una personalissima rivisitazione funk di alcuni brani del White Album dei Beatles, realizzata a tempo di record. Questa è Sexy Sadie



L'altra big dell'anno è Etta James. La signora della voce viene convinta da Leo Chess a registrare il proprio album Tell mama non più a Chicago ma in Alabama, in quegli studi Muscle Shoals che in quegli anni sono uno dei templi del soul. Il risultato è esaltante, il suono molto più nitido rispetto ad ogni altra produzione Chess/Cadet dell'epoca. Il tutto con un "tiro" micidiale. Provare per credere, ecco come è stata trasformata la coeva I got you babe di Sonny&Cher.



Potremmo anche parlare dello smooth soul dei Dells, ma quel che ci preme è segnalare le numerose perle. Nella mega playlist in fondo chiunque potrà divertirsi a scoprirle, ma non possiamo non segnalare, tanto per cominciare, le Daughters of Eve, il primo gruppo tutto al femminile di Chicago. Ecco la loro Social tragedy.


Dorothy Ashby è forse un caso unico: un'arpista che suona musica soul. In realtà la 38enne viene dal jazz, ed è già riuscita nell'impresa di convincere gli esponenti della scena di Detroit che il suo ingombrante strumento può giocarsela, quanto ad assoli e improvvisazione, col pianoforte. Funziona. Qualche anno e svariati album puramente jazzistici dopo, la Cadet la mette sotto contratto e la convince a misurarsi con basi leggermente più funky: ne nasce Afro harping, ed ecco la title track:


Il primo disco rap della storia? Con ogni probabilità l'ha inciso un comico all'età di 64 anni. Dewey "Pigmeat" Markham è una presenza abituale sui canali tv americani (partecipa a diverse puntate dell'Ed Sullivan Show), e il suo sketch principale è ambientato in un'aula di tribunale. "Heyeah come da judge" ("Entra il giudice" in uno sguaiatissimo slang nero) è il suo tormentone. Finalmente nel '68 la Chess/Cadet gli fa incidere lo sketch con un intermezzo musicale che dice tutto:


Ci sarebbero da menzionare i Wildweeds (bianchi, del Connecticut, da cui uscirà Al Anderson dei NRBQ), Marlena Shaw, Ray Bryant con la sorprendente Up above the rock e moltissimi altri... 

Ma preferiamo che vengano ascoltati. Stereo 8 ha cercato su Youtube tutto ciò che si trova di quell'anno magico della Cadet Records e lo ha racchiuso in una playlist. L'ordine è un po' farlocco: in linea di massima prima i singoli, poi gli LP (anche interi, se si trovano). Si può cliccare "play" e lasciar suonare a sfinimento, provare col random o esplorare a piacimento: di gemme c'è pieno.



martedì 12 novembre 2013

La Farfalla disonorata



"Fare film sul calcio è difficile". L'affermazione - sacrosanta - è talmente diffusa nell'ambiente che gli autori della fiction "La Farfalla Granata", andata in onda lunedì su Rai Uno, devono averla presa alla lettera, non provandoci nemmeno. Non si spiegherebbe altrimenti la tristissima sequenza di inesattezze, castronerie, sciattezze, disattenzioni, stupidità che hanno caratterizzato il racconto della vita di Gigi Meroni, grande ala destra di Genoa e Torino, un George Best italiano arrivato con qualche anno di anticipo e scomparso a 24 anni.

Stereo Otto si è seduto in poltrona armato di pazienza, sapendo che spesso, per ragioni di sceneggiatura, la verità storica viene un po' distorta (anche The Damned United, uno dei film sul calcio giocato meglio riusciti di sempre, modifica il calendario delle gare del Derby County per rendere più scorrevole la vicenda). Inezie perdonabili. Ma qui abbiamo visto ben di peggio.

L'inizio non promette bene: siamo nell'estate del '62; Meroni è appena stato ingaggiato dal Genoa e si appresta a raggiungere il capoluogo ligure. La sorella gli ricorda di portare con sé i dischi: "Anche quelli dei Beatles". Meroni ammicca: "Sentiremo parlare molto di loro". Esatto, sentiremo: in quelle settimane, i Fab Four non avevano ancora ingaggiato Ringo Starr e stavano preparandosi a incidere il loro primo disco (quello che Gigi possiede già) nel mese di settembre. E vabbè, il solito occhiolino al pubblico, evidentemente è un trucco da sceneggiatori.

Dopo pochi minuti, però, il protagonista scende in campo per il primo allenamento con la nuova squadra. Gigi esce dal tunnel degli spogliatoi, e si guarda attorno spaesato. Per forza: quello in cui si trova non è il Ferraris di Genova (il quale, va detto, dopo i lavori per Italia '90 ha completamente cambiato fisionomia rispetto agli anni '60), ma l'Olimpico di Torino. Proprio quello di oggi, l'ex Comunale, con tanto di seggiolini di plastica, vetri antisfondamento e prato perfettamente rasato. La cinepresa indugia su una panoramica a 360 gradi dell'impianto. Sono 5 secondi che durano 5 ore per il nostro stomaco, e ci chiediamo se la terribile sequenza sia frutto di ignoranza o di incuria: il prodotto, risulterà nel corso della visione, è infatti chiaramente pensato per un pubblico femminile che in quanto tale non sa nulla di calcio e molto di vicende amorose. Questo, ovviamente, nella modernissima mentalità degli sceneggiatori di fiction Rai. Di fronte a ciò, ci limitiamo a volare a pelo d'erba sui tifosi del Genoa che parlano un perfetto dialetto milanese e sul fatto che Beniamino Santos sia allenatore dei rossoblu in quella stagione (arriverà solo nel 1963). 

Meroni, suo malgrado, cambia aria: passa al Torino per una cifra record, e lo ritroviamo in un allenamento guidato da Nereo Rocco (Francesco Pannofino, che riesce a salvare almeno questa parte di film, malgrado il copione gli infili in bocca, nel giro di cinque scene, tutto il repertorio di aforismi del "Paròn"). Non siamo allo stadio Filadelfia (utilizzato peraltro in un'altra fiction da storcere il naso, quella sul Grande Torino), ma nel giardino di una misteriosa villetta di campagna, in cui vedremmo meglio una partita di badminton tra gentlemen inglesi. Nonostante i nostri timori, nessun vetro si frantuma per le pallonate. Il premio della scena più lisergica va però all'Inter-Torino in cui Meroni segna il gol più bello della sua vita: la sceneggiatura trasporta di peso la gara a Torino anziché a San Siro, e dopo il fischio d'inizio il parroco di Como irrompe in tribuna per comunicare a Cristiana, la ragazza di Gigi, che la Sacra Rota ha annullato il suo precedente matrimonio. Nel frattempo, la Nazionale di Mondino Fabbri fa una figuraccia al Mondiale e viene accolta in Italia dal lancio di pomodori da parte di contestatori in cappotto, guanti e cappello. A luglio.

Sempre al Comunale/Olimpico di Torino (coi suoi bei seggiolini puliti e moderni, e gli spalti coperti) va in scena Toro-Sampdoria, l'ultima partita di Meroni. La "Farfalla" trasforma un rigore che nella realtà non c'è mai stato, poi viene sostituito da Agroppi (ma le sostituzioni vengono introdotte in serie A solo nel 1969: cosa, peraltro, che svuota di ogni senso il concetto di "panchinaro" che ricorre lungo tutto il film). Pazienza. Ma a un certo punto si sente una radio che annuncia: "Per Torino-Sampdoria, linea a Sandro Ciotti". Vediamo così un radiocronista per nulla somigliante all'originale, che tenta di imitarne la voce roca con risultati che rivalutano istantaneamente il lavoro di centinaia di imitatori di provincia esibitisi in innumerevoli sagre della porchetta. 

E' l'ultimo, micidiale fendente. Meroni non meritava di essere ricordato con un fotoromanzo degno di Grand Hotel, ma nemmeno meritavano un trattamento simile gli appassionati di calcio. Che speravano di vedere non la cronaca di una carriera sportiva, ma almeno un po' di rispetto per il gioco che ha reso grande la Farfalla granata.

martedì 29 ottobre 2013

Footballicidio '96



La tentazione delle cifre tonde è stata troppo forte, per i molti commentatori che in questi mesi hanno celebrato il ventennale della rivoluzione televisiva del calcio italiano. Niente di sbagliato: è un fatto che le prime partite mai trasmesse dalla pay tv italiana si siano disputate l'ultimo weekend dell'agosto 1993. Ma la rievocazione diventa licenza poetica nel momento in cui queste due gare (un Monza-Padova 0-1 di serie B e un noiosetto pareggio a reti bianche tra Lazio e Foggia) vengono elette a emblema del crollo del nostro sistema calcistico, quello in cui, vent'anni dopo, gli stadi sono mezzi vuoti "mentre invece guardate gli inglesi, i tedeschi..." 

In realtà, in quelle calde sere di fine estate, non stavamo facendo nulla di molto diverso dai riveriti maestri d'Oltremanica. In Inghilterra il weekend calcistico era spezzettato per esigenze televisive almeno da metà anni '80, con posticipi domenicali (nel football di lassù il giorno del "rito collettivo" è il sabato e non la domenica) e "monday nights". La stagione precedente, i venti club della massima divisione avevano fondato la Premier League e venduto collettivamente i diritti a Sky per 200 milioni di sterline. Da noi, ci si limitava ad azzardare un casto posticipo della domenica con una serie di vincoli che riletti oggi sembrano usciti da un mondo di saggi gentiluomini (almeno 2 e non più di 5 passaggi tv per ogni club, nessun posticipo nelle ultime 6 giornate di campionato per preservarne la regolarità, menu delle gare televisive deciso fin dall'estate). Niente, insomma, che potesse scalfire più di tanto la presenza degli italiani sugli "spalti" che, per i radiocronisti vecchia scuola, rimanevano spesso "gremiti".

E quindi? Quando sarebbe stata vibrata la pugnalata che avrebbe sgonfiato il nostro pallone?

Non occorre andare molto più in là nel tempo. Tre anni soltanto, 1996. A suon di decantare il modello inglese (una pratica molto cara, allora come oggi, a chi magari non ha nemmeno mai preso un volo low cost per Stansted allo scopo di farsi un'idea di come funziona davvero lì), l'Italia calcistica commise con agghiacciante leggerezza quello che in Inghilterra nessuno aveva mai osato. All'atto di rinegoziare il contratto per la copertura "pay", la Lega Calcio mise in vendita un micidiale pacchetto (che Telepiù, allora monopolista, comprò al volo) comprendente ogni singola gara di entrambi i campionati di A e B. Anche il "nucleo" di partite della domenica pomeriggio, quindi, non solo la lunga teoria di anticipi e posticipi. In questo modo crollava il senso stesso dello "spezzatino" calcistico all'inglese, che i club di Premier League avevano escogitato proprio per salvare quelle 6 o 7 partite del sabato pomeriggio, le quali infatti a tutt'oggi non godono assolutamente di diretta TV sul suolo nazionale: una sorta di salvataggio della tradizione, che da quelle parti, ogni tanto, affiora anche laddove nuotano i peggiori squali del business.

In Italia ingollammo tutto, senza chiederci il perché, mettendo il calciofilo medio davanti ad una scelta: dopo il caffè e il digestivo, è meglio una domenica pomeriggio allo stadio (magari al freddo) o sul divano? Ovvia la risposta, con gli altrettanto ovvi danni collaterali al calcio minore (in quanti hanno il coraggio di uscire per andare a vedere il Forlì in C2 quando in salotto c'è la Juve?). 

E' vero che per "Stereo 8" la bellezza del calcio è inversamente proporzionale al numero di telecamere presenti a bordo campo (fanno eccezione quelle a tubo), ma visti i tempi che corrono, quel timido Lazio-Foggia senza reti ci sembra quasi un'innocente, educata marachella.

NOTA: Non avendo trovato immagini di qualità sufficiente riguardanti Lazio-Foggia, eccone una di Juventus-Sampdoria 3-1, terza giornata di quel campionato, la prima gara di serie A teletrasmessa da Telepiù in cui si sia segnato almeno un gol. Anche la domenica successiva, infatti, sempre la Lazio (squadra scelta come "test" per la vendita di abbonamenti e decoder su una piazza ampia come la Capitale) fece un dispetto ai dirigenti del nuovo canale rimediando un altro pareggio a reti bianche a Reggio Emilia.

giovedì 10 ottobre 2013

Minuto per minuto

Le repliche  di vecchie puntate di Tutto il calcio minuto per minuto sulla radio online della Rai sono una delle migliori cose accadute in questo malaticcio 2013. Non già perché ci permettono di riascoltare i racconti di Ciotti, Ameri e compagnia dall'inizio alla fine e non in base a brevissimi frammenti; non soltanto perché un po' tutti avranno una buona scusa per sfogarsi contro il calcio moderno e rimpiangere il bel pallone di una volta. Le bobine che - abbiamo scoperto - erano custodite in un magazzino Rai di Torino racchiudevano molto di più: il paesaggio sonoro degli stadi italiani.

Fare i retrofili non è difficile, ultimamente. Per esempio, del periodo calcistico 1969-72 (unici anni finora coperti, ahinoi, dalla coraggiosa iniziativa) abbiamo potuto leggere molto grazie agli archivi della Stampa e dell'Unità; abbiamo potuto vedere ore di pellicola grazie alla pur schizofrenica operazione archeologica di Rai Sport. Ma le voci di quegli stadi, di quelle partite, non le avevamo sentite mai. Quei boati che si udivano nei servizi della Domenica Sportiva che mostravano le azioni salienti delle gare di giornata, infatti, non erano autentici. Le partite venivano riprese in pellicola e già era un bel problema sviluppare, tagliare e montare il servizio in poche ore: l'ipotesi di piazzare dei microfoni a bordo campo per riprendere l'audio ambientale era inutile fantascienza. E così ogni sede Rai aveva il proprio nastro-loop preconfezionato di effetti sonori da stadio: bastava alzare il volume nel momento del culmine dell'azione e il boato era servito. Una pratica andata avanti almeno per tutti gli anni Settanta.

E così, è quasi più bello ascoltare il rumore di fondo piuttosto che l'italiano secco, veloce, elegante dei radiocronisti. Nessun coro "organizzato": solo in qualche occasione si può sentire lo stadio scandire il nome della squadra ("Ju-ve! Ju-ve!") o un sarcastico epiteto destinato all'arbitro Concetto Lo Bello,  ("Duce, duce"!, Fiorentina-Cagliari del 12 ottobre 1969). Al San Paolo di Napoli si esibisce spesso un trombettiere, mentre nel blocco di puntate del 1972 compaiono le trombe da stadio polifoniche, quelle che riproducevano (stonando) motivetti come "La Marsigliese" o "La cucaracha". Una lontananza impressionante non solo dai cori di "discriminazione territoriale" del giorno d'oggi, ma da qualsiasi forma di tifo organizzato. Un grande brusio, la cui intensità cresceva man mano che la palla si avvicinava alla porta, fino a sfondare i timpani in caso di rete, o fallo da rigore, o parata. Già, perché tra l'altro, all'epoca gli stadi erano pieni.

PS - Ovviamente il progetto di digitalizzare e ritrasmettere le vecchie puntate di Tutto il calcio è troppo bello e troppo della Rai per essere vero. Dopo una primavera e un'estate di goduria, con la trasmissione quasi integrale della stagione 1969-70 e della parte finale del 1971-72, tutto ha taciuto. Ora veniamo a sapere dalla redazione che "ci sono dei notevoli ritardi" nella digitalizzazione delle bobine e che "non si può garantire correttamente la programmazione". Non sappiamo perché, ma abbiamo paura che altri "Buuu!", altri "Gool!", altri boati rimarranno prigionieri ancora a lungo di un nastro magnetico.